Lo scopo della psicoterapia non è solo l'affrancamento dai sintomi, ma è la liberazione di energie per godere appieno della vita e potersi impegnare costruttivamente nella ricerca della propria via all'autorealizzazione e alla pienezza affettiva.
Sempre più spesso la domanda di psicoterapia viene posta a partire da sintomi intesi come indicatori di disturbi autodiagnosticati dopo ricerche effettuate sul web.
La salute mentale, se si guarda solo la presenza o assenza di sintomi, finisce per corrispondere all'assenza di sofferenza e di comportamenti anomali. Sappiamo però che questo non basta: ad esempio un paziente con una diagnosi di psicosi può non lamentare alcun malessere e addirittura avere un comportamente non dissimile da quello degli altri, "normale".
In psicoterapia ci occupiamo di un'idea diversa di normalità, non derivante da una media statistica, ma sempre intesa come via individualissima all'equilibrio, alla costruttutività, all'affettività, all'impiego delle proprie risorse umane e intellettuali in vista dei propri fini.
Secondo la definizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità il benessere psicologico è quello stato nel quale l'individuo è in grado di utilizzare le proprie capacità cognitive e emozionali per rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, adattandosi costruttivamente alle condizioni esterne e risolvendo i conflitti interni.
Si tratterebbe, in sintesi, della capacità di godere del presente, di essere costruttivi riguardo al futuro, pacificati riguardo il passato, potendosi impegnare per migliorare costantemente la qualità della propria vita e delle persone care. Questo non ci esime dall'approfondire la questione dell'approdo del lavoro che svolgono insieme paziente e psicoterapeuta.
Innanzitutto perché la qualità della vita è qualcosa la cui misura resta soggettiva. Inoltre, traendo le conseguente ultime di quanto detto, in circostanza difficili e negative siamo "sani" se stiamo "male" non se stiamo "bene". Tra l'altro quanto "male"? Nel pensiero psichiatrico questo male può essere addirittura quantificato: un lutto è dolore sano se dura un certo tempo oltre il quale diventa dolore malato, e può essere diagnosticato come disturbo (disturbo di adattamento, depressione). In questo caso dovremmo adattarci molte volte, una prima alla fatalità che ci ha strappato un affetto, una seconda alle norme sociali relative all'espressione del lutto e una terza alle norme psichiatriche che ci dicono quanto tempo dobbiamo soffrire.
Molti autori, in modo solo apparentemente provocatorio, hanno proposto in passato che sia proprio l'adattamento alle norme vigenti ad essere segno di follia e non viceversa. Così facendo hanno ovviamente proposto che sia la società ad essere "anormale" nel suo complesso e pertanto la patologia fosse da ascriversi ai meccanismi di relazione sociale di per sé patologici e patogeni.
Questa posizione ha origini antiche. Già Hegel aveva parlato di alienazione nel senso che essa è presente "...ogni volta che io non mi pongo come soggetto del mio agire, come soggetto che genera e prova sentimenti, ma mi alieno nel'oggetto che produco".
Successivamente Feuerbach ha applicato la nozione di alienazione alla religione. Marx porterà poi ad una ulteriore chiarificazione di questo concetto, attravero l'analisi dei meccanismi di produzione della società borghese. Per Marx l'alienazione è insita nel meccanismo produttivo per cui "meno tu sei, meno esprimi la tua vita e più tu hai, più è espropriata la tua vita, più tesaurizzi la tua essenza alienata" (Manoscritti economico-filosofici, 1844).
Successivamente Reich cercherà, in una sintesi psicologico-sociale, di riprodurre questa tematica affermando che l'individuo proprio adattandosi completamente alle regole alienate della società, diventa alienato.
Questa tematica, anche se più sfumata, sarà ripresa nella psichiatria americana da Horney, Fromm e altri. Questa posizione ci risulta oggi datata, non sufficiente ad interpretare la complessità del mondo contemporaneo, spostando in sostanza i termini del problema: dall'uomo alienato in una società fondamentale sana (e che impone determinati valori) ad una società strutturalmente patologica, tale che ogni adattamento diventa indice di alienazione e non di sanità.
Un esempio di quante sfide ci pone la complesità della vita reale. L'adattamento (che è considerato un valore positivo, ed è tra gli indici di benessere psicologico) può costituire un aspetto di una patologia sociale diffusa. Immaginiamo un ragazzo che si aggrega ad una banda di bulli: in questo caso c'è adattamento sociale, ma non c'è e non ci può essere reale benessere, in quanto l'integrazione nella comunità umana in senso pieno è compromessa. Quindi possono essere "patologiche" sia una ribellione cieca che un conformismo piatto e acritico. Gli individui sani psichicamente sono diversi tra di loro e imprevedibili molto più di individui le cui nevrosi o psicosi li rendono ripetitivi e prevedibili, nell'eterno ritorno del sintomo tramite cui esprimono la propria sofferenza e contemporaneamente si difendono dal dolore psichico più profondo.
In tal senso il problema della psicoterapia diviene il promuovere un approdo ad una visione ove il benessere psicologico fondato su valori individuali sia correlata con lo sviluppo e la creatività di ogni singolo individuo, riuscendo però realisticamente a tener conto dell'ambito sociale, storico e culturale nel quale il soggetto è immerso e vive, senza negarlo.
Carl Gustav Jung ha proposto una coppia concettuale di grande interesse riguardante il percorso psicologico inteso come una via che contemporaneamente sia volta all'individuazione (quindi alla ricerca delle proprie peculiarità, valori, differenza) e all'integrazione (il riconoscimento della profonda appartenenza al mondo condiviso).
In "Che cos'è la letteratura?" del 1947 scrive Jean Paul Sartre: "Il prosatore è un uomo che ha scelto una modalità d'azione secondaria che si potrebbe chiamare azione per rivelazione". Forse si potrebbe inserire tra le varie definizioni della psicoterapia - sempre non sia semplice risposta normalizzante ad una particolare collezione di sintomi impensati - che tenga conto del legame tra azione e rivelazione: un'agire il proprio cambiamento tramite un processo di rivelazione a se stessi, vissuto all'interno del campo determinato dalla relazione con un'altra persona.