La terapia intensiva “non è un ventilatore meccanico”, la terapia intensiva è fatta da professionisti. Con queste parole il referente della SIAARTI ci fa entrare in quei reparti che più di tutti vivono l'attuale emergenza sanitaria italiana
Il Prof. Franco Marinangeli, referente della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) e Professore ordinario di Anestesiologia presso l'Università degli studi dell'Aquila, in una lettera aperta invita ad una riflessione urgente su terminalità e area critica.
Parole intense e dirette quelle del Primario di Rianimazione dell'ospedale San Salvatore che ci catapultano nei reparti di terapia intensiva, in quell'area critica fino ad ora sconosciuta ai più ma che l'attuale pandemia ha oggi portato nelle nostre tv e sui nostri smartphone.
"Nel decennale della Legge 38/2010 (“Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”), che sancisce il “diritto a non soffrire” e la necessità di “costruire le reti di medicina del dolore e cure palliative”, il nostro Paese si trova ad affrontare una delle più grandi pandemie che la storia ricordi. Apparentemente vi è poca attinenza tra la Legge 38 e la pandemia attuale, ma una lettura più attenta di quanto è accaduto e sta accadendo rendono ragione del fatto che c’è molto di cure palliative nella gestione dei pazienti affetti da polmonite da COVID-19.
L’elevatissima mortalità di questi pazienti, molti dei quali anziani e affetti da comorbidità, dopo ore o giorni di insufficienza respiratoria, sintomo tra i peggiori nella visione della medicina palliativa, è un motivo di per sé sufficiente a valutare un approccio palliativo e non curativo dove non vi sono speranze di vita.
Abbiamo per anni cercato di fare cultura tra i medici e nel mondo civile sulla necessità di gestire i sintomi, le sofferenze inutili, ed evitare l’accanimento terapeutico in pazienti affetti da patologie cronico/degenerative senza speranze, ci troviamo oggi di fronte alla necessità di applicare queste regole su pazienti affetti da una patologia poco conosciuta, spesso fulminante, ma che presenta note di sofferenza anche peggiori rispetto a quelle di pazienti cronici terminali.
Gli Anestesisti Rianimatori, che solo marginalmente, in termini numerici, sono stati coinvolti in passato nella gestione del fine vita negli hospices, stanno facendo i conti con una situazione in cui una delle variabili fondamentali su cui si basano gli insegnamenti di Cicely Saunders (autentica iniziatrice degli hospice) è venuta meno: il fattore tempo.
In poco più di 1 mese sono deceduti circa 18000 pazienti, con una degenza che nelle migliori delle ipotesi è stata di qualche settimana, e con l’impossibilità di alcun rapporto umano tra medico e paziente, tra pazienti e familiari, tra medico e familiari. A ciò si aggiunga la sproporzione tra numero di pazienti e risorse umane in grado di gestirle.
Si tratta di un’enorme catastrofe, una maxiemergenza, in cui non vi è stato e non vi è il tempo di seguire, spesso, i dettami della Legge 38. Non il tempo di conoscere i pazienti, non il tempo di conoscere i familiari, non il tempo di elaborazione del lutto, in poche parole, scarsa o nulla possibilità di “umanizzazione delle cure”. Di fronte a una situazione di tal drammaticità, sono venuti meno tutti gli schemi relativi alle cure palliative.
La Legge 38 poco ha potuto rispetto a questa immane tragedia.… nelle cure palliative l’elaborazione del lutto è possibile, c’è il tempo, ci sono professionisti molto orientati, c’è la possibilità di un contatto, anche fisico, tra paziente famiglia e sanitari, ci sono psicologi utili a mediare le situazioni. Il COVID-19 ha rotto questi schemi, dando dimostrazione che ci sono situazioni in cui umanizzazione è pressoché impossibile, anche nella morte. Si è fatto avanti con forza un concetto meccanicistico prima di oggi mai così estremizzato: un ventilatore vale una vita. In sostanza, la vita di un uomo è stata per la prima volta da un punto di vista mediatico identificata con l’esistenza di un ventilatore.
Lo sosteniamo con forza, non è così. Abbiamo assistito a immagini crude di pazienti “soli” in ambienti caotici attaccati alla speranza di un “casco” da ventilazione non invasiva o di un ventilatore. La terapia intensiva “non è un ventilatore meccanico”. La terapia intensiva è fatta da professionisti che devono avere grandi capacità cliniche. Il ventilatore meccanico è una delle innumerevoli apparecchiature necessarie.
Va fatta cultura tra la gente e in sanità sul significato di “terapia intensiva”. Vanno ripensati gli spazi delle terapie intensive, che, se fossero state più capienti in termini di posti letto (si vada la situazione di altri Paesi europei) e meglio orientate alle “maxiemergenze”, avrebbero certamente potuto dare una risposta più “umanizzata”. Oggi si corre ai ripari costruendo “grandi scatole”, grandi corsie, con innumerevoli ventilatori e attacchi per l’ossigeno e gas medicali. Mentre si costruisce qualcosa che probabilmente ha un senso per una sicurezza futura e non per la pandemia COVID, stanti i tempi della curva epidemica da COVID, si dovrebbe rileggere con attenzione il documento SIAARTI “Raccomandazioni di etica clinica per l'ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili". Si dovrebbero analizzare le parole una ad una, per capire che la soluzione, forse parziale, ma certamente etica, del problema, sta nel ridurre al massimo lo “squilibrio tra necessità e forze in campo”, per rendere meno “eccezionali” o “più normali e prevedibili” situazioni che diventano sempre più frequenti (epidemie, terremoti, grandi incidenti, grandi catastrofi). I posti letto delle terapie intensive sono stati ridotti all’osso nel nostro Paese, e poi ci si meraviglia della sproporzione tra energie in campo e necessità reali.
A 10 anni dalla promulgazione della 38.2010, è necessario ripensare questa Legge, è necessario cioè ripensare il concetto di sofferenza e di malato terminale, è necessario che la terminalità sia riconosciuta come tale anche nelle patologie acute, è necessario che i sanitari che lavorano nelle terapie intensive abbiano tutti gli strumenti per riconoscerla e gestirla come tale. La pandemia da COVID-19 ha evidenziato i nostri limiti e l’importanza di un’area, quella della Terapia Intensiva e dell’area critica, che è sempre stata sconosciuta ai più, e su cui non si è certamente investito quanto si doveva. SIAARTI, oggi più che mai, ha il compito di valorizzarla al massimo, avendo la storia dimostrato che essa è strategica per garantire salute e “cure etiche” ai cittadini.
Un grande Paese come l’Italia ha il dovere di rispondere in maniera consapevole alla tragedia che stiamo vivendo, con razionalità e determinazione, evitando di cedere, con la “discesa della curva” alla tentazione di dimenticare."
FONTE: SIAARTI